IL GIORNALISMO DIGITALE IN ITALIA. Intervista a Alessandro Gazoia aka Jumpinshark, autore di "Il web e l'arte della manutenzione della notizia"


Una delle tante ipotesi di post che dormono nella sezione bozze di questo blog si intitola: L'aspirante blogger troppo cronopio per diventare tale, ovvero: non siamo tutti Jumpinshark. L'amena trovata muoveva dalla banale constatazione di come l'enormità di spunti appuntati su taccuini e post-it virtuali riuscisse solo raramente a concretissarsi in pezzi compiuti e appaganti, complice, tra le altre cose, una mia cronica simpatia per la procrastinazione Quando, mesi e mesi fa, parlai con la mia amica Daniela Finizio su Skype di questo problema, lei mi rispose così: «Non hai idea ti come ti capisco su questo, del resto ... non siamo tutto JS :)» dandomi lo spunto per il titolo di quel post mai pubblicato. Daniela non ebbe bisogno di specificare a chi si riferisse con JS e perché avesse scelto lui come esempio virtuoso. JS sta, appunto, per Jumpinshark, un blogger bravissimo dal timbro stilistico peculiare e riconoscibile che sforna post di qualità in sorpredente quantità capaci di spaziare in vari campi dello scibile umano.  Tra questi c'è il giornalismo digitale, con particolare riferimento alle sue storture. L'interesse per l'argomento è sfociato in un saggio edito da Minumum Fax e disponibile esclusivamente in ebook. Jumpinshark mette da parte il sarcasmo tipico del suo blog riuscendo però a essere sottilmente pungente verso scelte editoriali bislacche, oltre a indicare percorsi virtuosi intrapresi e intraprendibili. La Daniela di cui sopra (DF) lo ha intervistato a riguardo su Skype (ogni tanto facevo capolino anch'io - FS - per soddisfare qualche curiosità) e ha accettato volentieri la mia proposta di pubblicare in questo spazio la lunga chiacchierata. A lei la parola.
Francesco Spè

                                                Intervista di Daniela Finizio

Il Web e l’arte della manutenzione della notizia di Alessandro Gazoia (aka Jumpinshark) è un libro importante. Per quanto ne so è il primo che analizza sistematicamente e specificamente il giornalismo digitale in Italia. Dal libro emerge un quadro in cui grandi testate che sono andate online (Repubblica e il Corriere della Sera su tutte) e più o meno piccole testate native digitali competono per accaparrarsi i click degli utenti e accrescere la loro unica fonte di introito che è la pubblicità. In questo contesto le notizie scandalistiche e curiose della colonna di destra, che sono un po’ il marchio distintivo e onnipresente del siti di informazione online, sono solo una parte di un fenomeno ampio in cui l’intreccio di fattori come la crisi economica e la scarsa propensione degli utenti a pagare per i contenuti online creano un clima poco favorevole alla sperimentazione di approcci innovativi che accrescano indipendenza ed autorevolezza del giornalismo digitale. In questa intervista fiume, a cui Jumpinshark si è pazientemente sottoposto, partiamo dalle suggestioni del libro per allargare il discorso all’editoria digitale e alle opportunità, e limiti, di Internet come mezzo di informazione: Jumpinshark ci racconta come si fa la “manutenzione della notizia” sul web e di come il contesto digitale (ed economico) molto spesso imponga vizi e virtù del modo di fare comunicazione online come oggi lo conosciamo.

DF: Sul web sei noto come Jumpinshark e prima che uscisse il libro non ti eri mai firmato con nome e cognome. Come mai questa volta hai scelto di firmarti anche Alessandro Gazoia?
Sono convinto che pubblicando solo con il mio pseudonimo, nickname, nom de plume avrei danneggiato il libro e la casa editrice. Se avessi scritto un testo narrativo lo avrei firmato come Jumpinshark, affrontando volentieri le critiche, serie e meno serie, di molti (Jumpinshark è pseudonimo stupido, d’accordo, ma, si licet, Italo Svevo non è nome vero e Peter Finlay con il nom de plume DBC Pierre, dove DBC sta per dirty but clean, ha vinto un Booker Prize…). E se avessi scritto un saggio sulla street art in Italia o un fumetto (Zerocalcare, Makkok ecc.) avrei “dovuto” usare uno pseudonimo, perché in quei contesti e in quel genere letterario va bene cosi. Il nostro comune amico Flavio Pintarelli pubblicherà un libro sullo skate per Agenzia X e gli continuo a dire, scherzando sul serio, di trovarsi al più presto un nick d’impatto (forse Pintask8 spacca abbastanza), perché in quel caso, stimato editore di movimento e tema metropolitano, il mero nome anagrafico stona, diciamo. Invece scrivere un testo sul giornalismo italiano e firmarlo con uno pseudonimo crea problemi, perché, in quel contesto italiano (e non solo italiano), si tende a considerare le identità di rete come qualcosa di poco serio e molto deresponsabilizzante. E se anche il libro fosse stato preso in considerazione mi avrebbero messo nella posizione del blogher cupo che trafika con le parole e scrive il libro contro i giornalisti... Non volevo quindi dover continuamente difendere lo pseudonimo e (argh) la qualifica di blogher, spostando su questi l’attenzione; non sarebbe stato giusto né per il testo né per l’editore: il mio ebook si sforza di essere oggettivo ed è (per quel che ne comprendo io) onesto, il taglio non è polemico e le critiche, pur presenti, evitano sempre l’aggressione e le urla. Quindi, come diceva mia nonna, paese che vai usanza che trovi e via con Alessandro Gazoia se serve a discutere nel merito.

 DF: Veniamo al libro. Innanzitutto il prezzo, estremamente basso, €1,99, e il titolo.
Per Minimum Fax l’uscita solo in ebook era un esperimento e in generale nel mercato degli ebook c’è una forte politica di aggressione sul prezzo (ad esempio Einaudi vende a €6.99 Ulisse: Nella traduzione di Gianni Celati). Il titolo è stato scelto da Marina Testa di Minimum Fax. Io ero riuscito a tirar fuori solo qualcosa di essenziale, e meno attraente, come “Il giornalismo digitale in Italia”.

DF: Il libro è ricco di dati e “casi di studio”. È quasi una mappa per conoscere lo stato del giornalismo digitale in Italia, anche in confronto con esperienze estere che sembrano essere più coraggiose e innovative. Come è stato accolto dai giornalisti il tuo testo, scritto da un “laico”?
Ero fiducioso che un testo dal costo non alto sul giornalismo digitale in Italia potesse essere bene accolto, perché vedevo che il tema era molto discusso e c’era lo spazio per un lavoro che provasse ad essere una panoramica. Speravo quindi che potesse avere una discreta circolazione, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Mi sembra che il libro sia stato accolto bene. Ci sono state varie recensioni (dal Manifesto al Venerdì di Repubblica, in un quadratino ma conta tutto) e interviste (da Tiscali a Vice) e un lungo estratto è finito su Il Post. Inoltre, con grande piacere e stupore, ho ricevuto un invito di presentazione del libro dal Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. Non credo che i giornalisti italiani pensino che viviamo nel paese con la migliore stampa del mondo. E il fatto che io non sia iscritto all’Ordine dei Giornalisti non impedisce loro di valutare il testo con obiettività. Lo scopo del libro non è poi criticare la singola testata e tanto meno la singola notizia. Piuttosto faccio vedere come un certo modo di fare informazione, molto basato su una componente di “colonna di destra”, oggi non sia nemmeno economicamente vincente. Nel testo ci sono poi anche delle parti di critica culturale e analisi dell’informazione. Non penso di dire delle cose inedite, ma provo ad includerle in un ragionamento comprensivo forse utile anche a chi lavora nel campo.

DF: La sensazione di utente di siti di informazione è che, a parte alcune eccezioni, i giornalisti, ma anche gli editori, non appaiono del tutto a proprio agio nel fare informazione sul web. In particolare in Italia. Salvo alcune eccezioni, molte esperienze non sembrano riuscire ad adeguarsi e sfruttare le potenzialità del mezzo...
Secondo me si intrecciano componenti diverse. Innanzitutto, come qualsiasi altro settore, anche l’informazione sconta la crisi economica di lungo periodo che c’è in Italia. In più l’informazione subisce una ulteriore crisi dovuta alla transizione al digitale, così non è facile reperire le risorse necessarie per innovare. Inoltre, per un lunghissimo periodo, le versioni online delle principali testate non erano integrate con le edizioni cartacee; e sino a poco tempo fa non si sarebbe mai “bruciato” uno scoop e neanche un mezzoscoop pubblicandolo online prima che nell’edizione su carta. Anche perché il giornale di carta si paga, mentre il giornale online si legge gratis… Per quanto riguarda un discorso più ampio sul giornalismo digitale in Italia è vero che non ci sono grandi innovazioni tali da poter competere con gli Stati Uniti. Questo dipende anche da avverse condizioni generali: ad esempio sviluppare il data journalism in Italia è praticamente impossibile perché abbiamo una legge che rende molto difficile l’accesso ai dati delle Pubbliche Amministrazioni, figuriamoci per accedere a dati di istituzioni private (vedi foia.it). Il contesto non è molto favorevole allo sviluppo e all’innovazione del giornalismo digitale, a partire dalla Legge sulla Stampa del 1948 che ci porta a dover discutere sul serio nel 2013 se un blog sia stampa clandestina o meno. Comunque in Europa le esperienze di giornalismo digitale sono comparabili alle testate omologhe in Italia come il Post, LINKIESTA, Fanpage ecc.. Con l’eccezione dell’esperienza francese di Media Part, un sito che fa giornalismo di inchiesta di qualità, a pagamento e con i conti piuttosto in ordine. Ma è un esempio abbastanza unico.

FS: Una dei paragrafi che ho letto subito è stato quello su IlPost.it, curioso di sapere la tua opinione su questo prodotto editoriale verso il quale nutro giudizi contrastanti. Ne descrivi il suo "approccio didattico" (non da tutti apprezzato) e nel complesso esce un quadro del giornale molto positivo. Quali sono i suoi punti di forza? 
Da un punto di vista tecnico IlPost.it è tra i nativi digitali quello che, a mio personalissimo giudizio, offre il prodotto migliore. Sono una redazione piccola ma molto in gamba, guardate le biografie di chi ci lavora: Arianna Cavallo ad esempio ha una laurea in filologia romanza, che – avrò i miei pregiudizi- è sempre una garanzia. Lavorano velocemente ma hanno questa idea di curation che va oltre la “colonna di destra” o il bruto furto di materiali altri. È anche chiaro quali siano i loro riferimenti nell’ambito della tradizione culturale ed editoriale: ad es. vedo un’influenza dell’Economist nel tipo di scrittura, nelle posizioni e ancor di più nel modo di prendere posizione. L’impronta didattica è del tutto manifesta – anzi da decenni non si vedeva una volontà così apertamente dichiarata di ammaestrare il lettore. Tutto ciò rende Il Post un progetto piuttosto ambizioso e inedito, almeno per il digitale. Su molti contenuti, e soprattutto nel modo di trattarli, si colloca in contrasto più o meno aperto con i grandi giornali e cerca un altro tipo di pubblico. Per quanto riguarda gli orientamenti dei collaboratori e blogger: ci scrivono persone con approcci molto diversi, e alcuni non mi piacciono per niente. Mentre tutti amiamo Gipi e Makkox, ovviamente …

Esempio (31/01/13) citato nell'ebook dell'approccio didattico
 de il Post

DF: Nel libro scrivi: «fa giornalismo pure il cittadino che documenti in un blog la situazione del verde pubblico nella sua città o le condizioni delle mense sociali». Come si distingue tra giornalismo e informazione?
Non sono molto interessato a definizioni di essenza. Anche perché vedo che chi vuol dare definizioni stringenti di cosa è il giornalismo spesso ricorre a esempi che non rispecchiano per nulla quello che è il lavoro giornalistico nella quotidianità. Se riteniamo giornalismo solo la superinchiesta di due anni condotta sotto copertura sulla corruzione del governo dobbiamo dire che il 99% del giornalismo professionale italiano, quello che ci troviamo tutti i giorni sul Corriere online o in edicola, non è giornalismo. Io credo, e non mi trovo a dover difendere o attaccare una categoria professionale, che faccia giornalismo anche chi crea una mappa del verde pubblico, lo ispeziona ad intervalli regolari e documenta queste cose in un formato accessibile ad altri. Non pretendo che la mia definizione sia quella corretta, solo vorrei che chi definisce, nella teoria, il giornalismo in forma alta e chiusa facesse poi i conti con un giornalismo italiano che è, inevitabilmente e meno inevitabilmente, molto diverso. 

DF: Avere una colonna di blog è una delle caratteristiche delle testate online. Qual è il valore aggiunto dei blog e come vengono utilizzati dalle diverse testate?
Attualmente mi sembra che Il Fatto sia quello che utilizza meglio il potenziale dei blog, anche se i contenuti sono molto diseguali. Se guardi la colonna di sinistra dei blogger del Fatto, trovi sia giornalisti come Gomez e Travaglio sia persone che, pur svolgendo un’altra professione, sono iscritte all’OdG, ad es. Guido Scorza e Alex Corlazzoli (suo il  post più letto del FQ nel 2012). Poi ci sono altri come Francesca Coin, del gruppo di ROARS  o Giovanna Cosenza, docente di semiotica all’Università di Bologna, che non sono iscritte all’Ordine dei Giornalisti e tengono dei blog interessanti. Altre testate, come Il Corriere della Sera, si sono recentemente mosse in questa direzione ma mostrano di faticare un po’ con questo diverso modo di comunicare. I blogger del Corriere sono per la maggior parte giornalisti che si “dimidiano” in blogger e scrivono degli articoli editoriali che chiamano post. Alcuni belli, altri meno ma li trovo comunque molto tradizionali. Poi il Corriere preferisce fare blog tematici multi autore, e questa è un’idea interessante. Repubblica, invece, sebbene abbia i suoi blogger (anche ottimi, ad es. il “fotocrate” Smargiassi) non li integra quasi per nulla nella comunicazione in homepage, quindi direi che non ci punta molto. Per quanto riguarda i “nativi digitali” (testate che nascono online, ndr), l’Huffington Post con la sua colonna di blogger a me sembra che stia confermando la propria natura di ibrido poco riuscito. Anche gli altri nativi digitali, da Fanpage a Linkiesta a Il Post, hanno spesso un parco blogger.

DF: A proposito dell’Huffington Post: come ricordi anche nel libro, nelle intenzioni della Direttrice Lucia Annunziata, avrebbe dovuto coniugare “la grande tradizione del giornalismo civico del Gruppo Espresso, e l’intuizione di Arianna Huffington sul nuovo mondo che la rete ha formato”. La mia sensazione è che l’Huffington Post Italia sconti un po’ di complesso di inferiorità nei confronti dalla carta stampata.
Al contrario. L’Huffington Post dovrebbe rappresentare proprio la testata digitale che supera le testate tradizionali su carta. È l’unico nativo digitale che può contare su una piattaforma tecnologica avanzatissima e su contenuti internazionali molto numerosi e talvolta anche di ottimo livello (quelli delle altre edizioni di Huffington Post). In Italia possono sfruttare anche la partnership con il Gruppo L’Espresso (questo modello “ibrido” è stato applicato anche in Francia, con il gruppo Le Monde). Al momento non stano ancora raggiungendo numeri altissimi, e l’ibrido non mi pare riuscito: non viene cioè sfruttata la piattaforma tecnologica per veicolare “la grande tradizione del giornalismo civile dell’Espresso”. Guardando al peso editoriale, non sembra che gli articoli dell’Huffington Post abbiano una grande rilevanza per il giornalismo digitale in Italia, ed è una circostanza piuttosto notevole, se si guarda alle risorse che hanno, all’enfasi con cui è stato accolto il loro arrivo in Italia e anche alla forza dell’edizione americana. Grazie all’infrastruttura tecnologico-editoriale sono destinati a crescere, ma non credo che arriveranno a volumi di traffico tali da impensierire Repubblica o il Corriere. L’alleanza del Gruppo L’Espresso con l’Huffington Post è stata dettata dalla paura che quest’ultimo decretasse la fine delle grandi testate. L’idea era: “Unisciti al nemico che non puoi sconfiggere”. Ma al momento mi pare che il Gruppo L’Espresso stia trainando molto l’Huffington Post (pensate solo all’ampio box da mesi sulla home di Repubblica.it).

DF: A mio avviso esiste un problema di conservazione e gestione, anzi manutenzione, delle informazioni pubblicate online. Innanzitutto c’è un grande flusso di informazioni che rischia di essere perso. Ma anche non sembrano esistere policies che regolino ad esempio la cancellazione di post o notizie o procedure per la rettifica. Recentemente sul Fatto è stato cancellato un post che parlava di una presunta proposta di legge del M5S…
Credo che la vicenda sia andata così: un blogger ha pubblicato un post su una “proposta di legge alla Regione Lombardia” da parte del M5S per eliminare l’obbligatorietà delle vaccinazioni; ma veniva linkato come fonte solo un meet-up dove una singola persona proponeva alla discussione comune questo tema. 

DF: Al di là dal caso specifico vedo leggerezza nel modo in cui si affrontano episodi come questi. Non basta dire: “non va bene, lo faccio sparire dal mio sito”, è necessario individuare delle procedure per gestire questi casi, che pure accadono normalmente nella pratica giornalistica.
In realtà quel post non è sparito, si trova ad esempio su Giornalettismo. Come afferma la legge di cancellazione da internet (ricordata ancora recentemente da Mantellini), in rete è molto difficile cancellare qualcosa per sempre. Quel post conteneva gravi inesattezze di contenuto e questo porta ad un’altra questione: sul mio blog posso scrivere qualsiasi stupidata e la responsabilità è soltanto mia, non avendo una struttura editoriale dietro. Invece è ammissibile che una testata come Il Fatto pubblichi in un blog sul suo sito una cosa così chiaramente mal documentata come quella riportata sopra? E come si deve comportare, dopo aver commesso uno sbaglio così grande? In Italia ogni testata gestisce questi processi in modo informale, diciamo. In altri paesi ci si comporta diversamente, anche con eccessi deliziosi… Ad esempio sul New York Times nel 2012 hanno pubblicato un servizio molto bello sull’autismo, e un paio di giorni dopo sotto all’articolo hanno pubblicato un erratum perché avevano sbagliato il nome del My Little Pony caro alla ragazza autistica. Il Guardian mette errata corrige in fondo per qualsiasi minimo errore. Da noi invece spesso semplicemente si cancella perché “tanto su Internet vale tutto”. Ma questo è più un problema culturale, dell’imporsi di pratiche professionali condivise nel gestire l’informazione su internet. Noi non ci siamo ancora arrivati e molte volte ci sono delle “disinvolture” che a me paiono ingiustificabili. Ma, per tornare all’episodio del Fatto, quel post non sarebbe mai stato pubblicato su carta, perché lì un minimo di controllo editoriale fattuale su dati così chiaramente errati viene fatto (credo). Poniamoci il problema della conservazione su internet, anche delle cose inesatte, ma soprattutto bisogna porsi il problema della qualità delle informazioni pubblicate per far sì che taluni cose facilmente controllabili non trovino dignità di pubblicazione neanche sul web dove pure tutto è velocissimo. Dobbiamo poi accettare che con le nuove forme di creazione e diffusione delle notizie sul web, le modalità di archiviazione delle notizie tradizionali non sono più possibili. Nell’emeroteca tradizionale si conservano le edizioni dei quotidiani, che appunto uscivano una volta al giorno, ma attualmente non esiste qualcosa che tracci come cambia la homepage del Corriere o di Repubblica ogni due ore, o come cambia la singola virgola oil singolo refuso… È tutto molto più complesso, compresso e ravvicinato, con aumenti vertiginosi del volume dell’informazione. In qualche modo tutto o una qualche approssimazione del “tutto” è conservato, ma non ci si può rapportare per analogia a forme di archiviazione delle informazioni tradizionali. Questo non vuole essere una giustificazione della mancanza di una procedura per le rettifiche dei pezzi online. Nel caso che usiamo come esempio avrebbero forse potuto mettere in cima una rettifica del tipo: “questo post contiene queste informazioni inesatte e viene mantenuto solo ai fini documentali” e appunto conservarlo al suo indirizzo originale. Però il problema è che qui l'errore è talmente grande e compromette talmente il pezzo da rendere difficile un qualsiasi recupero editoriale, anche in forma di pura documentazione. In ogni caso l'eliminazione di un url pubblicato in un quotidiano online è per me una misura estrema. Mantenere la pagina originale e in essa, al limite, avvertire che era stato pubblicato un articolo poi ritirato mi pare sempre preferibile.

DF: Guardando i dati sugli accessi unici ai siti di informazione che pubblichi nel libro, Repubblica e il Corriere sono al primo e secondo posto, nonostante non sfruttino a pieno potenzialità per rendere il proprio sito “sticky” . Come se le abitudini di lettura siano simili a quelle della carta ed i lettori “sfogliassero” i giornali, anche online...
Prima di tutto prendiamo solo come indicativi quei numeri assoluti - soprattutto certi parametri sono difficili da misurare e vi sono vari altri dettagli da considerare. Tipicamente il lettore entra sull’homepage di Repubblica, guarda le notizie più importanti nella colonna di sinistra, ne apre due o tre, poi si fa un giro nella colonna di destra coi boxini morbosi e chiude. Certo lo sfogli come faresti con il giornale di carta, perché Repubblica e il Corriere si sono imposte come possibili fonti principali di informazione. Questo però è il soprattutto comportamento dell’utente che "ama informarsi", poi ci sono i lettori che cliccano da Facebook o da Twitter, chi usa gli impaginatori come Zite etc.. Bisogna considerare la mole di notizie che producono ogni giorno Repubblica e Corriere e l’archivio che mettono a disposizione degli utenti. È ovvio che i numeri siano più alti rispetto ad una start up digitale che fa 20 pezzi al giorno, o all’Huffington Post Italia che ha un nucleo ancora ristretto di contenuti originali. 

DF: Quindi, secondo te, è un problema quantitativo e non di autorevolezza.
È abbastanza ovvio, Il Post ha una redazione di circa 6 persone, a Giornalettismo non credo siano molti di più… Quanti giornalisti lavorano nella redazione di Repubblica online? I nativi digitali si trovano a fare concorrenza a delle strutture molto più grandi. Oltretutto in questo momento c’è un’illusione ottica per cui il giornalismo digitale pare tutto uguale, ci sono invece delle enormi differenze nelle risorse, sia nelle redazioni, sia nella raccolta pubblicitaria. Non possiamo comparare in termini di qualità o di quantità realtà tanto distanti senza prima specificare il peso delle differenze per quelle valutazioni. In questo momento i guadagni digitali si fanno soprattutto con le pubblicità sulle pagine. La teoria è “più pezzi hai, anzi più pagine, più inserzione e possibilità di attirare un lettore hai”. Questo non è un modello sostenibile, o, per essere sostenuto, richiede la produzione di pezzi sempre più veloci e di conseguenza meno accurati? OK. La strada che è stata percorsa- fino alla nausea - è quella degli introiti pubblicitari per migliaia pagine viste (CPM, CPI) che ha portato ai noti eccessi già discussi. E anche l’ammirato e innovativo Guardian alla fine è costretto a puntare sui numeri e quindi finisce col mettere la curiosità sul panda, anche se fa la sua colonna di destra con misura e grazia. La questione è, in un certo senso, molto semplice: fare informazione costa, il modello CPM non funziona se non in casi particolari, il paywall a molti sembra una soluzione infallibile, ma ancora poche persone in Italia sono disposte a pagare per l’informazione sull’online. Soprattutto in questa fase, quanti sono quelli che pagherebbero (potrebbero pagare) 20 € al mese di abbonamento per ogni giornale da loro apprezzato? Esistono però anche altre possibili fonti di entrata: il Guardian ha persino un sito, Soulmates, per trovare l’anima gemella, vende biglietti per gli spettacoli, fa corsi; e sui corsi ed eventi punta ad es. pure Il Sole 24 Ore.

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DF: Nel contesto competitivo che disegni, secondo te c’è bisogno (o spazio) per tanti giornali generalisti? Non credi che siti di informazione specializzata in grado di attrarre pubblici specifici possano avere maggior successo?
Parli dei cosiddetti siti verticali come LaVoce.info, che appunto si regge anche su finanziamenti dei lettori. Ancora una volta da noi queste esperienze sono meno sviluppate e le condizioni non facili. Nazione Indiana, Le Parole e le Cose, Alfabeta 2, Carmilla sono ottimi blog culturali su base volontaria, gestiti da docenti che pubblicano saggi e da scrittori che pubblicano testi narrativi e critici. Il ritmo di pubblicazione è di pochi pezzi al giorno. Alcuni, come Alfabeta 2, hanno una rivista cartacea a fianco. Potremmo quindi dire: per superare la dimensione volontaria facciamo una cosa talmente bella e innovativa da spingere il pubblico a pagare il lavoro (perché, ehm, di lavoro si tratta) degli autori. Ma considera la crisi economica - circostanza che non è da sottovalutare in nessuna analisi contemporanea dei consumi culturali - la non abitudine a pagare per i contenuti online e appunto la disponibilità gratuita di moltissimi contributi di buono e persino ottimo livello. La somma di tutti questi fattori rende non facile l’avvio a pagamento in Italia di una testata digitale specializzata, almeno in campo letterario, artistico, culturale.

DF: Ma secondo me si sconta anche la questione della minor autorevolezza del mezzo online. In fondo noi eravamo disponibili ad andare una volta alla settimana in edicola a comprare Orwell. Un’operazione come Pubblico ha fatto la fine che ha fatto, ma così il un bacino di competenze e autorevolezza che stava costruendo Orwell viene disperso solo perché non ci sono i soldi per uscire su carta…
La carta stampata ha indubbiamente un’autorevolezza maggiore dell’online! Pensa che "Pubblico", un giornale letto davvero da pochissime persone, pubblicò un pezzo su una probabile ricandidatura di Napolitano e il giorno dopo il Presidente inviò una nota di smentita al giornale. Blogger come Leonardo che hanno (credo) un numero di visitatori unici al giorno superiore a quello dei lettori di "Pubblico" e non ricevono certo lettere del Presidente della Repubblica. In Italia la carta ha ancora molta più autorevolezza del digitale. Punto. Certo possiamo auspicare una modifica di questi rapporti e anzi è molto probabile che la situazione cambierà abbastanza velocemente, alcuni stanno lavorando attivamente in tal senso, ma ad oggi la situazione è questa.

Uno degli articoli di Jumpinshark per "Orwell" (20/10/12)

FS: Tra cartaceo e digitale c'è una bella differenza anche per quel che riguarda il mercato di narrativa e saggistica. Pensi ci sia possibilità che il tuo ebook venga pubblicato su carta? Lo vedrei bene come manuale per aspiranti scienziati della comunicazione! :D
Quali sono i vantaggi di un ebook? Per un lettore almeno questi: un ebook non occupa (quasi) spazio e in un ereader ci stanno moltissimi libri, così non sei costretto a caricare uno zaino con 20 kg quando via in viaggio. Per l’editore almeno questi, sempre riferendoci allo spazio: non ci sono problemi di magazzino o di resi. E come costano i mq occupati dalle librerie in caa, così costano i magazzini. Se domani si scoprisse che il mio ebook ha venduto 10.000 copie, forse Minimum Fax proporrebbe l’edizione cartacea. Ma non so quanto senso possa avere quest’operazione tra qualche mese: il pubblico a cui l’ebook era in primo luogo rivolto probabilmente lo ha acquistato (o lo sta acquistando in queste settimane) e sarebbe davvero difficile diffonderlo ulteriormente. E poi su carta il prezzo certo non potrebbe certo essere di 2€, quindi non credo vi sia una possibilità reale. Al più, se l’ebook avesse davvero un grande riscontro si potrebbe pensare a un’edizione molto ampliata, anche su carta, ma insomma sarebbe semplicemente la base per qualcosa di diverso.

2 commenti:

  1. "Facebook sai che sei gay prima di te" è solo un esempio tra i tanti di titoli ridicoli di articoli ridicoli. Ben venga chi "denuncia" queste robacce. Domanda: non ho il kindle ne altri dispositivi, si può scaricare il pdf del libro?

    Giacomo

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    1. Anche io sono (ero) abituato/affezionato al pdf, ma ti consiglio di scaricarti il saggio in formato epub e aprirlo su un browser con apposite estensioni. Io usavo "epubreader" per Firefox (ecco una lista di alternative https://addons.mozilla.org/it/firefox/search/?q=epub&cat=1%2C0&appver=10.0.2&platform=windows trovi servizi simili anche per chrome). Poi ci sono programmi gratuiti per la gestione degli ebook come Calibre e Adobe Digital edition che permettono di leggersi il contenuto dei libri senza problemi.

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