DROGHE E GIORNALISMI: STEREOTIPI, EURISTICHE, “REPERTORIO”

Due settimane fa è morto a Macerata un ragazzo di 24 anni. Overdose. L'ho scoperto al bar sfogliando distrattamente il Corriere Adriatico, che riportava solo le iniziali del defunto, lette le quali è subito partita in me la preoccupata e furiosa ricerca/rassegna mentale delle *persone che conosco i cui nome e cognome iniziano con quelle due lettere e che “ci sta” che siano morte così*. Ricerca che fa il paio con quella, meno allarmata ma forse perfino più smaniosa, che rischia di partire come triste automatismo quando le iniziali sono quelle di un neo arrestato. Se ti trovi dinanzi a quelle lettere puntate associate ad altri “indizi”, si innescano facilmente euristiche fallaci.

Ho appreso il giorno dopo che il ragazzo si chiamava Paride. Non ricordando di conoscere nessuno con quel nome, ho tirato un respiro di sollievo di cui un po' mi vergogno. Come sei anni fa, quando appurai dopo qualche minuto di shock che il ragazzo neanche ventenne morto carbonizzato a seguito di un incidente stradale non era l'amico mio ma un altro con lo stesso cognome. Conoscevo pure lui, ma gli volevo meno bene.

L'altro giorno in pizzeria parlando con un altro mi amico che non vedevo da un bel pezzo ho scoperto che Paride in realtà un po' lo conoscevo. «Dai, quello col cappellino, lo avrai visto mille volte al centro sociale». Si, l'ho visto mille volte al centro sociale, e anche da altre parti. Non ci ho mai parlato, non sapevo nemmeno come si chiamasse, ma per strada ci salutavamo. Tornato a casa non ho potuto fare a meno di cercare il suo nome su Google, dal quale sono stato servizievolmente condotto a un articolo di uno dei giornali on-line locali, di quelli solitamente retti da stagisti non pagati e che si nutrono in gran parte di articoli cotti e mangiati. La foto scelta dalla giornalista come “intro-didascalia” del pezzo intitolato Macerata: ragazzo morto di overdose, si cerca lo spacciatore, mi ha causato un istintivo rigurgito. Si tratta chiaramente di una delle tante immagini di repertorio messe a disposizione dall'archivio del giornale. Ritrae lo scambio tra mani giovani di un paio di banconote e di un bustina contenente qualcosa di verde, oso supporre, marijuana. Nel breve pezzo non si fa nessuno riferimento alla sostanza mortale, la si denomina *dose di stupefacenti*, specificando che è stata iniettata con una siringa, trovata vicino al corpo di Paride. L'unica droga che “appare” nell'articolo è quindi quella della foto.


Pera d'erba? Il surreale e improbabile fraintendimento potrebbe innescarsi solo dinanzi a un lettore - verosimilmente anziano - completamente a digiuno di competenze, anche solo teoriche, riguardo l'assunzione di sostanze stupefacenti. Ma associare le parole del titolo *overdose* e *morte* all'immagine di una sacchettino di marijuana è un fail, di quelli tanti frequenti quanto epici. Così come lo è rappresentare graficamente lo spacciatore ricercato per aver causato la morte di Paride come uno ragazzo che spaccia, appunto, marijuana.

Presumo che dietro l'infelice e deprecabile scelta della giornalista ci sia anche la fretta e la pressapochezza quasi obbligata in giornali con questo taglio (tanti articoli brevi da dover sfornare, fonti quasi sempre indirette, istigazione al copia incolla ...) e magari pure la comprensibile mancanza di stimoli nel dover lavorare in questo modo. Quantomeno è ciò che provavo io quando mi sono trovato a fare lo stage pre-laurea presso un quotidiano on-line locale, “rivale” di quello di cui sopra e della stessa lena. In quei due mesi quasi tutti gli articoli di quel giornale li scrivevo io, stagista non retribuito alla primissima esperienza giornalistica. Una delle poche direttive dall'alto era: «cerca di fare molti articoli di cronaca. Hanno più visite». Tra i motivi per cui cercavo di disobbedire il più possibile a questo invito, oltre a un innato disinteresse per i fatti di cronaca nera, c'era proprio il disagio che provavo nel dover inserire foto insignificanti di auto della polizia o peggio, appunto, di droghe rappresentate in varie modalità, spesso anche ridicole. Per non parlare della sezione dell'archivio fotografico del giornale dedicata agli articoli su fatti di cronaca legati alla prostituzione.


Le immagini di repertorio utilizzate da molti giornali online, il cui sfacciato didascalismo è di per sé urticante, rischiano quindi in svariate situazioni di cavalcare stereotipi e di frustrare il lavoro dei redattori spinti a inserirle in ogni articolo. Ma l'utilizzo obbligato e svogliato del "repertorio" fotografico non è altro che uno dei tanti modi con cui si palesa la gigantesca pochezza di progetti editoriali che mortificano il senso del giornalismo.

Francesco Spè

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